La piccola Regina Frescobaldi era sola e pensava. Ella era abituata alla solitudine quanto una donna vecchia, disillusa di tutti e d&rsquo;ogni cosa: e abituata a pensare per credere di non essere sola.<br />I bambini dei poveri &mdash; quando sono intelligenti &mdash; godono di questo privilegio che culla la fantasia, prepara alla virt&ugrave; del silenzio e alla pi&ugrave; bella conquista individuale: bastare a s&eacute; stessi.<br />Tanto come dire che Regina Frescobaldi, quantunque avesse appena nove anni, non era una bambina. Il suo fondo cuore, gi&agrave; pieno di ricordi, non racchiudeva un solo raggio di luce schiettamente infantile. Pareva una posatrice consumata, alle bimbe della sua et&agrave;: invece era sincera. Ella non sapeva, proprio, n&eacute; divertirsi, n&eacute; ridere. La donnina sorrideva, qualche volta: una sfumatura di sorriso che ispirava terrore e piet&agrave; agli adulti: le smorte labbra innocenti sembravano fare una concessione alla vita degli altri. E sembravano, anche, aver bevuto il sorriso breve &mdash; in cui balenava l&rsquo;ironia &mdash; a una torbida acqua: come se una tragica coppa, ricolma di tossico misterioso, fosse stata offerta alla bocca gi&agrave; dolorosa, gi&agrave; consapevole dei fremiti che trattengono i singhiozzi; delle pieghe amare che sigillano lo sdegno.