<i>Per le nuove generazioni, scrivere e interloquire attraverso apparecchi elettronici sempre pi&ugrave; sofisticati &egrave; diventata una squallida routine. Ci si conosce chattando, al riparo del freddo schermo di uno smartphone, non luogo dell&rsquo;immaginario in cui basta inserire un&rsquo;emoticon sorridente, una faccina gialla birichina, per far credere che tutto sia in ordine, che si stia bene, quando invece dentro si prova tutt&rsquo;altro, e magari si ha l&rsquo;anima in frantumi. Il non verbale, quello che pu&ograve; comunicare il corpo con lo sguardo, la postura, il movimento, rimane ormai avulso da una comunicazione sempre pi&ugrave; mediata e dissociata, in cui il linguaggio viene svilito nel suo potere creativo, salvifico e rigenerativo.</i><br /><i>E partirei proprio da questo concetto per cominciare a esprimere il valore e l&rsquo;indispensabilit&agrave; della silloge del Carnabuci: essa vuole rimettere al centro del discorso la parola, evocandola nella sua forza spirituale, nella sua autorevolezza graffiante e nel suo potere balsamico. [&hellip;]</i><br /><br />Nato in un quartiere popolare di Agrigento il giorno di Ognissanti del 1944, Leo Carnabuci ha fatto un regolare corso di studi &ndash; liceo classico, Universit&agrave; &ndash; conclusosi con una laurea in giurisprudenza presso l&rsquo;universit&agrave; di Palermo. Ha lavorato, dal 1970 al 2006, come funzionario dell&rsquo;INPS, prima a Venezia (dal 1970 al 1976), poi ad Agrigento. Ha cominciato a comporre versi per caso, in periodo di pandemia (2020), descrivendo le sue emozioni, le impressioni e i suoi ricordi in modo ironico e talvolta autoironico, per stemperare l&rsquo;ansia e qualche dramma interiore.<br />Adesso vive da pensionato, con la moglie Giovanna, in un caseggiato situato fra la Valle dei templi e il mare, vicino ai suoi figli Gianmarco e Andrea e ai suoi nipotini Gabriele e Maria.