<i>Un alto e tetro silenzio era nella stanza di Cesare Dias. Egli stava seduto nel seggiolone di cuoio bruno, teneva appoggiati i gomiti sulla grande scrivania di legno scolpito e le due mani gli nascondevano gli occhi e la fronte: si vedean solo i capelli un po&rsquo; scomposti e le labbra pallidissime sotto i mustacchi disfatti. Fuori, la triste giornata invernale declinava e tetre si facevano le ombre nell&rsquo;austera stanza, tetre intorno a quella immobile figura di uomo di cui, nell&rsquo;alto silenzio, parea non si udisse neanche il respiro. &mdash; Eccellenza&hellip; &mdash; mormor&ograve; una voce trepida. Cesare non si mosse: sembrava non avesse inteso. &mdash; Eccellenza, perdonate&hellip; &mdash; ripetette l&rsquo;esitante e tremula voce. Allora egli, quasi a forza, liber&ograve; i suoi occhi e la sua fronte dal velo delle mani e fiss&ograve; lo sguardo stanco e smarrito sulla cameriera, che lo aveva due volte interrogato. Non avea pianto, Cesare: ma tutto il volto aveva una espressione di stanchezza e di smarrimento. &mdash; Come debbo vestirla? &mdash; chiese la donna.</i>