Mantenere la pace e la sicurezza internazionale è l'unico, nobile ed ambiziosissimo obiettivo che si è data l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nel suo Statuto. Ci si chiede, dunque, come sia possibile che in una decina di circostanze sia stata la stessa ONU a combattere. In effetti, la via primaria per tentare di ricomporre una controversia nata dalla violazione del diritto è sempre quella della negoziazione. Ci sono poi tutte quelle misure non implicanti l'impiego della forza armata, come l'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni sino alla rottura dei rapporti diplomatici. Ma se si ritiene che queste iniziative si siano dimostrate inadeguate, viene intrapresa "ogni azione necessaria", utilizzando le forze aeree, navali o terrestri messe a disposizione dagli Stati membri. È proprio ciò che successe quando i coreani del Nord oltrepassarono il 38° parallelo invadendo il Sud oppure quando Saddam ritenne che fosse lecito occupare il Kuwait. In entrambi i casi, alla ferma condanna del consiglio di sicurezza seguì una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti di coloro che avevano messo a rischio l'ordine pubblico globale. L'invasione della Kabul talebana, invece, venne considerata come una legittima ritorsione alla devastante incursione aerea sulle Torri Gemelle e sul Pentagono. Per fortuna risultò sufficiente la sola minaccia di esercitare la forza per far ritirare i paracadutisti anglo-franco-israeliani dopo l'indebito blitz nel Canale di Suez. Nel duplice intervento in Congo l'operazione era inizialmente di peacekeeping - ossia di tutela dell'equilibrio esistente ancorché precario - ma poi le truppe inviate dovettero difendersi dai continui attacchi delle milizie locali e addirittura contrattaccare.