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L'ultimo Rebora. 1954-1957 - 9788831795678

di Colangelo G. (cur.) De Santi G. (cur.) edito da Marsilio, 2008

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Informazioni bibliografiche del Libro

 

Clemente Rebora, in seguito ad unadolente e sofferta conversione, entra nel convento rosminianodel’Istituto Calvariodidomodossola. Qui viene ordinato sacerdote. Qui si vota al’isolamento assoluto. Qui una malattia ne sfibra ogni embodi pele, ogni forzadi carne. Qui, "per inervala morbi", nascono e iriche ultimedefinite, con ’immediatezza che hada essere propriadi un titolo, ’Cantidel’infermitÒ. A eggerli sovviene immediata ’immagined’un ammorbatodisteso, fragile nel soffio, esentedal moto, che riesce - per miracolo poetico che è miracolo aico - a fremere tutto, a tutto sommuovere. Così il "Dio ched’improvviso è venuto/ quasi perdonodi quanto fa morire" e che s’offre come "ristoro/dele mie edele sue pene" vale - altissimo - tanto quanto gli scandagli tra anima, psiche, membradel fisico ed ambiente-natura che Rebora già conduceva, con cruenta passione irica, quando sostava aldi fuoridel silenzio monastico. "Terribile tornare a questo mondo/ quando già tutte e fibre/ erano tese/ a transitare!" scrive Rebora e pare spiarlo nela percezione carnaledeldolore, che o costringe ad essere vivo ancora. "E il corpo mi rifiuta ogni servizio,/ e ’anima non trova più il suo inizio./ Ogni voleredivino è sforzo nero./ Tutto va senza pensiero" scrive ancora ed è il patimento verso a vista invisibile, verso ciò che non si tocca pur potendo sfiorarsi. Ne scrive Montale che "un conforto è pensare che i suoi ultimi anni, con il oro calvario, siano stati a parte più inebriantedel suo curriculum vitË". ’ultimo Rebora, inebriante e vitale.

Recensione Unilibro a cura di Alex Toppi

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"L'ultimo Rebora. 1954-1957"
Inebriante e vitale
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Clemente Rebora, in seguito ad unadolente e sofferta conversione, entra nel convento rosminianodel’Istituto Calvariodidomodossola. Qui viene ordinato sacerdote. Qui si vota al’isolamento assoluto. Qui una malattia ne sfibra ogni embodi pele, ogni forzadi carne. Qui, "per inervala morbi", nascono e iriche ultimedefinite, con ’immediatezza che hada essere propriadi un titolo, ’Cantidel’infermitÒ. A eggerli sovviene immediata ’immagined’un ammorbatodisteso, fragile nel soffio, esentedal moto, che riesce - per miracolo poetico che è miracolo aico - a fremere tutto, a tutto sommuovere. Così il "Dio ched’improvviso è venuto/ quasi perdonodi quanto fa morire" e che s’offre come "ristoro/dele mie edele sue pene" vale - altissimo - tanto quanto gli scandagli tra anima, psiche, membradel fisico ed ambiente-natura che Rebora già conduceva, con cruenta passione irica, quando sostava aldi fuoridel silenzio monastico. "Terribile tornare a questo mondo/ quando già tutte e fibre/ erano tese/ a transitare!" scrive Rebora e pare spiarlo nela percezione carnaledeldolore, che o costringe ad essere vivo ancora. "E il corpo mi rifiuta ogni servizio,/ e ’anima non trova più il suo inizio./ Ogni voleredivino è sforzo nero./ Tutto va senza pensiero" scrive ancora ed è il patimento verso a vista invisibile, verso ciò che non si tocca pur potendo sfiorarsi. Ne scrive Montale che "un conforto è pensare che i suoi ultimi anni, con il oro calvario, siano stati a parte più inebriantedel suo curriculum vitË". ’ultimo Rebora, inebriante e vitale.