La storia degli ebrei. L'appartenenza. Dal 1492 al 1900 - 9788804714378

La storia degli ebrei. L'appartenenza. Dal 1492 al 1900: La mattina del 5 gennaio 1895, nella piazza d'armi dell'École Militaire, il capitano Alfred Dreyfus venne degradato perché ritenuto colpevole di tradimento. La spada spezzata sul ginocchio e le spalline strappate dalla divisa cancellarono di colpo non solo una carriera militare, ma anche un sogno: quello di poter servire lealmente un Paese al quale sentiva di appartenere senza riserve. Il sogno, cioè, dell'assimilazione. Lo stesso che molti ebrei d'Europa avevano coltivato fin dall'alba dell'età moderna. Perché in Russia come in Spagna, a Praga come a Berlino, assimilazione voleva dire emancipazione e integrazione, pace e sicurezza, dopo infinite persecuzioni. E pazienza se significava anche rinunciare alla propria identità: gli ebrei lo sapevano, da sempre ai privilegi accordati avevano fatto seguito i decreti di espulsione, alle patenti di tolleranza le calunnie del sangue, all'allentamento dei divieti i pogrom. Nulla li avrebbe messi al riparo dal capriccio dei potenti o dall'odio della marmaglia, ci sarebbero stati ancora i ghetti, le caricature oscene, i pamphlet antisemiti. E poco importava che ad attaccarli fossero l'apostolo della tolleranza Voltaire, Karl Marx o Richard Wagner, o che entro la fine dell'Ottocento, molto prima del "Mein Kampf", la parola "annientamento" facesse la sua comparsa nel vocabolario dell'antisemitismo. Era sempre successo e sarebbe successo di nuovo. A meno che non si fosse trovato un posto dove stare, l'Ha-Makom, il Luogo dove sentirsi al sicuro, la patria cui appartenere. Che fosse Odessa, la città cosmopolita, o il West americano, la fro
On the morning of January 5, 1895, in the plaza of arms of the Ecole Militaire, Captain Alfred Dreyfus was demoted because he was found guilty of treason. The broken sword on the knee and the straps torn from the uniform suddenly erased not only a military career, but also a dream: to be able to loyally serve a country to which it felt it belonged unreservedly. The dream, that is, of assimilation. The same that many Jews in Europe had cultivated since the dawn of the modern age. Because in Russia as in Spain, in Prague as in Berlin, assimilation meant emancipation and integration, peace and security, after endless persecution. And patience if it also meant renouncing one's identity: the Jews knew it, always the privileges granted had followed the decrees of expulsion, the licenses of tolerance the slander of blood, the easing of the bans the pogroms. Nothing would shield them from the whim of the powerful or from the hatred of the rabble, there would still be ghettos, obscene caricatures, anti-Semitic pamphlets. And it mattered little that the apostle of tolerance Voltaire, Karl Marx or Richard Wagner attacked them, or that by the end of the nineteenth century, long before the "Mein Kampf", the word "annihilation" appeared in the vocabulary of anti-Semitism. It had always happened and it would happen again. Unless you had found a place to stay, the Ha-Makom, the place to feel safe, the homeland to belong to. Whether it was Odessa, the cosmopolitan city, or the American West, the fro